La straordinaria avventura di Rita Coruzzi, dalla sciagurata operazione che le rovinò l’esistenza alla scoperta che «ci può essere gioia nella sofferenza. Ma occorre guadagnarsela col sudore della fronte»
di Benedetta Frigerio
«Ero condannata a soffrire in eterno». Rita Coruzzi parla raggomitolata in un corpo fragile, segnato da una malattia e da ferri chirurgici che l’hanno resa tetraparetica e quindi «arrabbiata con la vita», racconta a Tempi. «Dopo aver lottato dalla nascita per poter camminare ho visto venir meno in un istante l’unica ragione per cui vivevo». Rita nasce ventitré anni fa con problemi agli arti inferiori. Cammina male, ma può riporre le sue speranze nella fisioterapia, cui si sottopone con tenacia e costanza, e nelle promesse della chirurgia. All’età di dieci anni l’intervento che deve guarirla peggiora le sue condizioni. «Rita – le dicono – non camminerai mai più». A ciò si somma l’addio del padre: non accetta che una figlia tanto bella finisca così. «Lasciò me e mia madre», spiega Rita. «Aggiunsi un’altra cicatrice sul mio cuore». Così la ragazza passa la sua adolescenza «arresa sulle mie membra martoriate».
Ma oggi quelle stesse membra lese paiono sprigionare una potenza che non appartiene loro. Rita le agita mentre si racconta nella sua casa a Reggio Emilia. Dice che non vuole più «la commiserazione in cui sono ristagnata per anni» e batte i pugni, ripetendo in continuazione che della vita «c’è da innamorarsi perdutamente». Cosa ha trasformato tanta rabbia in forza? L’esistenza di Rita ha una prima svolta quando a quattordici anni incontra un insegnante che la provoca: «Tutti hanno i loro problemi – le dice –. Alza quegli occhi da terra e inizia a sfruttare la tua intelligenza». Il secondo passo lo fa accettando per la prima volta di andare in gita di classe. Lì, ad Atene, «i compagni da cui meno ce lo si aspetta» la portano, dopo le sue iniziali resistenze, fino in cima all’acropoli, sollevando la carrozzina. Ma la vera rivoluzione, «quella più grande, quella del cuore, ci fu quando accolsi un invito a Lourdes». È lì che tutto cambia. «Se prima mi nascondevo, ora vado a testa alta sfidando tutti a guardarmi: se provano pena me lo dicano, li convincerò che si sbagliano. Se provano ammirazione non la merito, sono solo una persona che ha deciso di affrontare la vita dicendo il suo sì».
Oggi Rita guarda davvero le cose diversamente. «Ora vedo che la nostra società ha imboccato una strada sbagliata: se non sei dentro i canoni di perfezione, stabiliti da chissà chi, non vali nulla. Ma la perfezione non esiste, perciò se la rincorri ti rovini. Io lo so bene. Si arriva a nascondere i propri limiti, senza accorgersi che se sono condivisi diventano occasione di sentirsi amati. Io, per esempio, so che la carrozzina è un ostacolo, ma in fondo è una risorsa. Non mi lascia illusioni: chi sta con me non può scherzare, non può che amarmi sul serio».
L’unica cosa che questa ragazza umile e decisa non sopporta è che qualche luminare si permetta di definire “ingiusto” far nascere «persone come me», con il rischio che poi soffrano. «Se sono davvero i geni che dicono, provino a dimostrare che sono infelice. Fosse per loro mia madre avrebbe dovuto abortire». Gli uomini, attacca Rita, hanno raggiunto una presunzione senza pari, si mettono al posto di Dio, «con metodi tutt’altro che scientifici. Giustificano aborti ed eugenetica prospettando scenari di vita terribili. Se non basto io a confutare la loro teoria, pensino a Fulvio Frisone, nato spastico. Nessuno gli dava un briciolo di fiducia. Oggi è uno dei fisici nucleari più famosi al mondo: ha scoperto una nuova terapia per il tumore». Rita ricorda quando nemmeno i suoi medici e insegnanti credevano che fosse in grado di affrontare gli studi classici. «Dicevano che non mi sarei mai laureata. Figurarsi scrivere libri». Ma non c’è risentimento nei suoi ricordi, «perché lo so, dolore e sacrificio possono fare paura. Anche io ho paura, anche io fatico. La differenza è che io so. So quello che il nostro mondo si è dimenticato. Che su questa terra bisogna guadagnarsi il pane con il sudore della fronte per raggiungere la vera gioia». Rita non molla nemmeno quando, a due mesi dal conseguimento del praticantato in giornalismo, il direttore del giornale manda tutto all’aria: «Mi sono allora iscritta alla scuola di giornalismo e sto per finirla, mentre pubblico libri e giro l’Italia parlando di me. So, a furia di farla, che questa fatica è poi ripagata da soddisfazioni enormi. È vero, l’uomo è fatto per la gioia, ma se non ti rimbocchi le maniche te la puoi scordare, anzi rammollisci».
«Troppo facile lamentarsi sempre»
Rita ce l’ha soprattutto con «i cattolici che vivono di nascosto la loro fede. Capisco che hanno paura, una paura tremenda, ma finché non ci sarà il grido umano che ho dentro io, il grido di chi vuole vivere per Cristo risorto, il cristianesimo rimarrà debole. Forse quei cattolici saranno apprezzati, ma a quale prezzo? Di perdere Lui. Lui che è andato a Gerusalemme con le sue gambe. E mentre quegli altri, i discepoli, avevano paura, Lui se ne è fregato ed è andato incontro al suo destino di gloria». Rita non cerca commiserazione, «perché nella mia vita mi ha aiutato solo chi non mi ha dato tregua, chi non lasciava che mi lamentassi. Troppo facile scaricare le colpe sugli altri, potrei farlo con chi ha sbagliato ad operarmi, anzi l’ho fatto, ma poi mi sono stufata, perché la lagna non mi ridava l’uso delle gambe e mi lasciava solo più triste. Così ho iniziato a cedere, mi sono fatta aiutare e mi sono messa a combattere per ottenere quello che desideravo». Rita non fa sconti nemmeno a chi usa come alibi ultimo la solitudine, certa che «i buoni samaritani esistono e Dio ti soccorre sempre attraverso qualcuno. Il punto è se noi siamo disposti ad accoglierlo. Quanti aiuti mi passavano davanti e io non li riconoscevo perché diversi da quel che volevo!».
Nel suo libro Rita ha scritto che perfino certe cose brutte, se viste “da una prospettiva divina”, apparirebbero meravigliose. Ma Dio non è un masochista: «Non voglio dire che i mali li dà Dio. Sono conseguenze della ribellione dell’uomo e della natura. Dio lì usa, li trasforma. Qualche volta guarisce per farci capire che c’è, altrimenti ci dà se stesso per accompagnarci. Dio non è un masochista anche se a qualcuno piace tirarlo in ballo solo per incolparlo di ciò che non va. Forse è più comodo, ma non conviene, perché ci lascia mesti e incattiviti». E per capirlo non è necessaria la fede, «non c’è impedimento che tenga. Cosa mi impedisce di studiare, viaggiare, testimoniare, scrivere? Per assurdo la carrozzina mi dà libertà in più: non è lei ad avere potere su di me, ma io su di lei, la conduco io e dimostro al mondo che con dei limiti sono libera. È per questo che non posso giustificare chi ha tutto ma non fa nulla di buono per essere contento».
«Allora Dio, cosa vuoi?»
Certo, però, una cosa per Rita è stata ed è necessaria. E le numerose foto che colorano le pareti del suo studio ne sono la prova. Raccontano di qualcuno «che continuamente ti mostri le possibilità che hai. Sono i veri amici, i genitori, come mia madre, che dopo l’operazione anziché arrabbiarsi mi disse che ero in carrozzina perché Dio aveva grandi progetti per me. Ma ci sono pure le persone incontrate per caso in pochi secondi e che magari ti lanciano delle idee. Bisogna solo vederle, e perciò essere sempre vigili, umili e desiderosi. Il Signore si nasconde in quelle sfumature che consideriamo irrilevanti». Come tutti, anche Rita ha le sue preferenze, volti che contano più di altri. A Lourdes la Madonna le parla: “Ho bisogno di te”. È un miracolo «più grande anche della guarigione fisica», tanto che da allora nemmeno a sua madre Rita sembra più la stessa. «La vita da noiosa e vuota divenne una festa». Certo, restano i drammi, i momenti di sconforto. «Però Dio è venuto quaggiù, smettiamola di metterlo in cielo. Io lo sfido: “Allora, cosa vuoi?”, gli chiedo. Mi ha sempre risposto con fatti che mi hanno aiutato a rialzarmi». Fatti come i rapporti umani attraverso cui il Signore si documenta: «Quei volti sono Lui che mi vuole bene, Lui che mi ama più di tutti loro messi insieme». Dio è per Rita «un rapporto preferenziale», insieme a quello con la Madonna. Ma c’è un terzo volto che ha segnato la sua adolescenza. «Incontrando Giovanni Paolo II malato, ho desiderato di offrirgli tutte le mie fatiche e la mia compagnia». Comincia così una lunga corrispondenza epistolare tra i due. «Lo chiamavo amico, prima che Padre, perché era un confronto allo stesso livello. Ci capivamo, sentivamo il dolore allo stesso modo». Anche per questo, «per prolungare la memoria del mio amico Karol», Rita ha scelto di vivere la malattia «come fece lui, che non si nascondeva, ma andava davanti a tutti. Ragionava così: se io soffro e sono papa, si vede che il mondo deve vedere questo».
Ma c’è un’ultima amica che Rita ha ricevuto come «segno della Sua preferenza per me», anche se l’ha capito più tardi. È la sua carrozzina. «So che è un’affermazione forte, ma ci può essere gioia nella sofferenza. Io sono convinta che Cristo non voleva andare in croce, che ha cercato di evitarla chiedendolo al Padre, ma quando ha capito che doveva passare di lì l’ha abbracciata. Se ci pensiamo Pilato gli ha messo in bocca per tre volte la possibilità: “Non vedo colpa, vuoi che ti salvi?”. Lui però non ha risposto e sulla croce ci è andato per amore. Così io, per amore, vado sulla carrozzina convinta. E se con la mia sofferenza posso anche aiutare qualcuno, ben venga. Mi sento così amata che metto tutta la mia vita in quel che vuole Lui, seguendo le cose che fa capitare. Certo, ho i miei desideri, faccio progetti, Gli chiedo favori e sono anche cocciuta, ma è Lui che mi risponde. A volte come voglio, a volte “deviandomi” verso cose che sono anche meglio di quelle che immaginavo io».
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