La malattia, anche quella
terribile dell’anoressia e
bulimia, può trasformarsi in un
prezioso momento per rinnovare il
proprio incontro col Signore; allo
stesso tempo un sincero percorso di
fede rappresenta un supporto molto
importante per uscire dalla propria
patologia. A sostenerlo è don
Francesco Scimè, direttore
dell’Ufficio diocesano di Pastorale
sanitaria.
«La sofferenza, fisica o morale, porta
la persona a porsi le domande
essenziali sulla propria esistenza -
afferma don Scimè - Si fermano le
attività ordinarie, si inizia a
riflettere, si sente l’urgenza di non
rimandare più la ricerca delle
risposte. Lo scontrarsi con il proprio
limite può diventare,
paradossalmente, un momento di
grazia per incontrare con nuovo
vigore la speranza che viene dalla
fede».
Tra le cause di anoressia e bulimia c’è la carenza di autostima. L’incontro
con Dio può intervenire su questo aspetto?
Moltissimo. È lo stile di Dio valorizzare la persona così com’è. Nel mondo
siamo abituati a essere esaltati per quello che siamo capaci di fare o di
essere. Dio ci dice che la nostra preziosità è assolutamente slegata da questo.
Anzi, egli preferisce coloro che nel mondo sono emarginati, deboli, ritenuti
ultimi. Penso alle figure evangeliche di Zaccheo, dell’adultera, della
samaritana: tutti stupefatti dal rispetto e dall’amore riservato loro da Gesù.
Perché anoressia e bulimia si stanno diffondendo così vistosamente?
A monte di questi disturbi c’è un problema di vuoto dell’esistenza. Mi viene
in mente la figura della Samaritana, alla quale Gesù promette un’acqua che
sazierà eternamente le sete. Credo che noi adulti, con le nuove generazioni,
ci siamo un po’ troppo concentrati sul dare di quell’«acqua» che ristora solo
temporaneamente, trascurando il bisogno dei ragazzi di vivere la vita
all’interno della verità, bellezza e totalità. Siamo stati, insomma, un po’
avari di Vangelo.
Cosa può fare la comunità cristiana?
È sempre aperta la via maestra della visita. Il malato ha necessità della
medicina, ma anche di un’altra dimensione, quella del rapporto umano che
rompe la solitudine. Quindi: andare a trovare, parlare, ascoltare, accogliere,
far sentire che vogliamo bene.
Michela Conficconi
terribile dell’anoressia e
bulimia, può trasformarsi in un
prezioso momento per rinnovare il
proprio incontro col Signore; allo
stesso tempo un sincero percorso di
fede rappresenta un supporto molto
importante per uscire dalla propria
patologia. A sostenerlo è don
Francesco Scimè, direttore
dell’Ufficio diocesano di Pastorale
sanitaria.
«La sofferenza, fisica o morale, porta
la persona a porsi le domande
essenziali sulla propria esistenza -
afferma don Scimè - Si fermano le
attività ordinarie, si inizia a
riflettere, si sente l’urgenza di non
rimandare più la ricerca delle
risposte. Lo scontrarsi con il proprio
limite può diventare,
paradossalmente, un momento di
grazia per incontrare con nuovo
vigore la speranza che viene dalla
fede».
Tra le cause di anoressia e bulimia c’è la carenza di autostima. L’incontro
con Dio può intervenire su questo aspetto?
Moltissimo. È lo stile di Dio valorizzare la persona così com’è. Nel mondo
siamo abituati a essere esaltati per quello che siamo capaci di fare o di
essere. Dio ci dice che la nostra preziosità è assolutamente slegata da questo.
Anzi, egli preferisce coloro che nel mondo sono emarginati, deboli, ritenuti
ultimi. Penso alle figure evangeliche di Zaccheo, dell’adultera, della
samaritana: tutti stupefatti dal rispetto e dall’amore riservato loro da Gesù.
Perché anoressia e bulimia si stanno diffondendo così vistosamente?
A monte di questi disturbi c’è un problema di vuoto dell’esistenza. Mi viene
in mente la figura della Samaritana, alla quale Gesù promette un’acqua che
sazierà eternamente le sete. Credo che noi adulti, con le nuove generazioni,
ci siamo un po’ troppo concentrati sul dare di quell’«acqua» che ristora solo
temporaneamente, trascurando il bisogno dei ragazzi di vivere la vita
all’interno della verità, bellezza e totalità. Siamo stati, insomma, un po’
avari di Vangelo.
Cosa può fare la comunità cristiana?
È sempre aperta la via maestra della visita. Il malato ha necessità della
medicina, ma anche di un’altra dimensione, quella del rapporto umano che
rompe la solitudine. Quindi: andare a trovare, parlare, ascoltare, accogliere,
far sentire che vogliamo bene.
Michela Conficconi
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